*  JeMM Edizioni -  Via E. Barigozzi 2, 20138 MILANO  *


 

Enemi Zero / Enemy Zero, Giappone 1996
Software house: WARP Inc. - Publisher: Sega
Sound Effects: Tak Ogawa
Creature Design: Yasushi Nirasawa
Sound Director: Makoto Midorikawa
Dialoghi: Yuji Sakamoto
Animazione CGI: Fumito Ueda/Hirohiko Sugamura/Hideki Sudo/Norihiro Yamamoto
Musiche: Michael Nyman
Storia & Regia: Kenji Eno

 

 

 

   Secondo capitolo (a cavallo tra D e D2) della cosiddetta “Trilogia di Laura” partorita da Kenji Eno e dalla WARP, é un fantahorror che si ispira per il gameplay ai first person shooter in stile Doom e per la trama ai film di Ridley Scott e James Cameron sull'alien più famoso del mondo (influenze certe anche per il videogioco id Software). I modelli di partenza, stravolti e resi irriconoscibili, danno forma a qualcosa di assolutamente anomalo che non ha corrispettivi nella galassia videoludica.
   L’idea di partenza é che i nemici da decimare siano del tutto
invisibili. Dovendosi basare esclusivamente su suoni e rumori per individuare i mostri, il player é obbligato a elaborare strategie atipiche che rendono l’esperienza di gioco completamente diversa da quella dei Doom-clones. A ciò si accompagnano la decostruzione del linguaggio audiovisivo e l’iconoclastia tipici del designer Kenji Eno. L’insieme, oltre a risultare genuinamente terrorizzante, compie un totale sovvertimento degli stereotipi dei FPS e di certo cinema, rovesciati come un guanto e sbeffeggiati con raffinata ironia intellettuale.
   Troppo
arty e irriverente per essere apprezzato dal grande pubblico (specie quello patito di un FPS trucido come Doom, poco incline all'ironia e ancor meno all'autoironia), Enemy Zero a suo tempo riscosse un buon successo solo in Giappone. Pure oggidì é un gioco sovente frainteso dai patiti di survival horror che lo considerano poco più di una bizzarria, costringendo gli addetti ai lavori all’irritante pratica della “rivalutazione”. Tipo questa.
   Sottotitolato
WARP presents an Interactive Movie, il gioco non ha pressoché nulla in comune col predecessore D: né la trama, né l'ambientazione, né il gameplay. L'unico evanescente punto di contatto, a parte il preciso progetto di sovvertire convenzioni e linguaggio ludico-horror, è la protagonista Laura, da intendere esclusivamente come "icona" e non come "personaggio". Infatti qui si chiama Laura Lewis mentre in D si chiamava Laura Richter e anche i lineamenti sono diversi.

 Trama:

  In un lontanissimo futuro, nello spazio, l’astronave The Aki é in viaggio verso la Terra. A bordo l’equipaggio si trova in animazione sospesa in capsule criogeniche. Improvvisamente nei corridoi della nave qualcosa di completamente invisibile si fa largo sfondando porte e imprimendo orme aliene nel pavimento d’acciaio. La nave attiva la procedura d’emergenza che risveglia l’equipaggio.
La graziosa Laura Lewis, uscita bruscamente dal sonno dell’ibernazione, si ritrova priva di ricordi recenti ma ben consapevole della minaccia. Vede su uno schermo uno dei compagni aggredito e ucciso dalla minaccia invisibile. Grazie a un apparecchio che potenzia l’udito riesce a percepire la presenza del mostro nei paraggi, ma é priva di armi e per colpa di un diffuso corto circuito non é in grado di raggiungere il resto dei compagni, alloggiati da tutt’altra parte. Laura dovrà perciò procurarsi una pistola e farsi strada attraverso la labirintica astronave evitando per quanto possibile ogni contatto col mostro (che non é solo). Il suo obiettivo principale è raggiungere il fidanzato David, che non riesce a contattare in alcun modo. E prima della fine forse scoprirà che l’invisibile nemico non é affatto la minaccia più pericolosa...


    
Grafica e gameplay:

    Come il predecessore D, il gioco alterna esplorazione in tempo reale (in Prima Persona) e filmati in CG (in Terza Persona). I mostri che infestano l'astronave sono completamente invisibili, quindi per individuarli bisogna basarsi sui suoni. Un apparecchiatura nell'orecchio di Laura permette, in base alle variazioni di frequenza delle sonorità, di capire se il nemico si trova davanti, di dietro o di fianco e a quale distanza. Impossibile farsi spazio sparando all'impazzata: l'unico modello d'arma esistente nel gioco ha zero portata (il nemico viene colpito solo se è a distanza di sputo), richiede diversi secondi di "caricamento" per ogni singolo colpo e tende a esaurirsi molto in fretta. Mantenere il sangue freddo e schiacciare il grilletto solo al momento giusto è quindi vitale.
  
Il livello di difficoltà di Enemy Zero è decisamente elevato, visto che ai mostri per eliminare Laura basta un solo colpo. Non è possibile salvare la propria posizione quando si esplora, ma solo nelle sequenze cinematografiche. Anche se il player a inizio gioco può scegliere tra modalità Easy, Normal e Hard, ciò influenza solo la quantità di salvataggi e di caricamenti a disposizione, non il numero o la pericolosità dei nemici. L'altissima e insolita difficoltà intrinseca è una delle ragioni che spinsero la critica del tempo a storcere il naso.
   Diversamente che per gli altri suoi videogiochi, Kenji Eno stavolta non si è occupato della colonna sonora e ha affidato l'incombenza a Michael Nyman, realizzatore per l'occasione di una partitura da antologia. Nyman, compositore, pianista, musicologo e librettista inglese, è noto al grande pubblico soprattutto per le colonne sonore dei film di Peter Greenaway (nonché di Lezioni di piano e Gattaca), ma gli appassionati di classica sanno che è soprattutto "l'inventore" del
minimalismo applicato alla musica,. Siccome in Enemy Zero il commento musicale è presente solo nei filmati (durante l'esplorazione "deve" esserci silenzio, altrimenti il player non riuscirebbe a concentrarsi sui rumori che segnalano la presenza dei nemici) la score non punta a terrorizzare, ma piuttosto a smorzare gli eccessi d'ansia, immergendo il player in atmosfere emotivamente differenziate (ora mélo, ora elegiache, ora riflessive). L'enfasi data ai sentimenti "collaterali" è perfettamente funzionale al progetto iconoclasta di Eno, oltre che un'impeccabile applicazione di minimalismo musicale: tutto è affidato al solo pianoforte, il massimo dei risultati col minimo dei mezzi. Purtroppo, vista lo scarso successo del gioco in occidente, la score di Nyman è tuttora pochissimo nota al di fuori del Giappone.

   Analisi:

   Nell’anno di grazia 1996 i first person shooter in stile Doom sono all’apice del successo. Non si tratta di mero successo economico, legato solo a dati di vendita e diffusione per un gioco intenso e viscerale, la forza di Doom consiste anche e soprattutto nell’aver stravolto “culturalmente” la maniera di intendere i videogame. Gioco pc per eccellenza, Doom ha per la prima volta aperto ai comuni utenti la possibilità di realizzare le proprie opere grazie alla disponibilità gratuita del codice sorgente, che ha dato il conseguente via a un’enorme proliferazione di mod e Doom-clones (Aliens, Barney the Dinosaurs, RoboTech, Barman, The Simpsons... l’elenco di imitazioni più o meno spudorate sarebbe lungo come un treno). Anche le abitudini ludiche vengono culturalmente rivoluzionate visto che con Doom esplode il fenomeno del multiplayer, la fruizione collettiva e cooperativa attraverso Internet. (Per una maggiore conoscenza del fenomeno Doom si raccomanda la lettura di Doom - Giocare in prima persona a cura di S. Morris e M. Bittanti, ed. Costa & Nolan.)
Gioco al servizio degli istinti, senza trama, grondante violenza e testosterone texano, manicheo fin nei precordi con il suo Bene assoluto (il player) impegnato a falcidiare il Male assoluto (tutti gli altri),
Doom inizierà a invecchiare solo negli anni immediatamente successivi al ‘96, quando 007 GoldenEye della Rare (1997) e ancora di più Half-Life della Valve (1998) battezzeranno una nuova maniera di concepire i FPS. Nei videogiochi Rare e Valve non ci sarà più spazio per l’azione sfrenata e irriflessiva, si diffonderà una maggiore tatticità, l’approccio cautelativo quasi stealth mirante a eliminare gli avversari con colpi ben studiati (le famigerate “botte alla testa”), nonché un’ambientazione moderna e una trama vera e propria pure se un po’ minimale. Ma tutto ciò nel ‘96 é ancora utopia, l’estetica di Doom pervade ogni pc fino all’ultimo bit, tanto che persino un titolo osannato dalla critica come System Shock della Looking Glass (1994) a suo tempo passa quasi inosservato agli occhi del pubblico per via del troppo intricato gameplay ispirato ai giochi di ruolo.
   E’ in questo magma di fermenti che nasce nel ‘96
Enemy Zero di Kenji Eno, titolo che come System Shock (con cui peraltro ha ben poco in comune) stravolge le convenzioni dei FPS à-la-Doom per creare qualcosa di molto più sofisticato e quindi destinato a non venire capito dal grande pubblico. Persino la critica più acuta in questo caso storce un po’ il naso e non va oltre considerazioni banali sul taglio inconsueto del prodotto. Eppure, fermo restando che Enemy Zero è un’opera assai poco immediata, lo spirito ferocemente ironico del designer Eno debordava con forza già nel predecessore D (1995) e anche questo nuovo parto era stato accompagnato da annunci dello stesso tenore. Durante la presentazione del gioco all’E3, la principale fiera videoludica del Sol Levante, la WARP aveva diffuso un filmato pubblicitario dove le scene in CG e le sequenze d'azione si concludevano con una spassosa beffa: il logo della PlayStation, fino a quel momento annunciata come la console di appoggio, si trasformava in quello del Saturn per il disappunto degli utenti Sony e il piacere di quelli Sega. Questo aneddoto (fatto, non diceria) era rivelatore sia del gusto sarcastico di Eno sia, indirettamente, della natura metamorfica di Enemy Zero, opera in cui la realtà e i suoi significati più reconditi non sono mai immediatamente visibili.
  
Enemy Zero é dunque destinato a restare un oggetto “alieno” se non si entra in sintonia con lo spirito anticonformista e iconoclasta del suo creatore. Sintonia non facile da raggiungere giacché la furia eversiva di Kenji Eno agisce principalmente a livello di linguaggio, non nella trama o nel contenuto. Tuttavia, agli occhi di vuol vedere, basta il modello di arma impugnato dalla protagonista Laura per comprendere gli intenti di Eno: mentre nei FPS standard domina un’ossessione "fallocratica" che stimola il player a procurarsi armi sempre più grosse e potenti, al punto che l’icona del fucile sembra simulare un’estensione del membro virile (non a caso Doom é unanimemente definito "pieno di testosterone texano"), in Enemy Zero tale concezione viene allegramente sputtanata. L’unico modello d’arma presente nel videogame ha la sagoma di un buffo giocattolo per bambini! In effetti é davvero l’equivalente di un giocattolo per bambini, vista la sua scarsissima utilità: non può sparare a ripetizione, richiede interminabili secondi per ogni singolo colpo e si scarica con ridicola rapidità! Se ciò non bastasse, provvede la struttura narrativa a mettere ulteriormente il tutto alla berlina: trascorre un bel pezzo prima che Laura riesca a procurarsi l’arma, e quando la trova riesce a stento a sparare un paio di colpi prima di perderla, stavolta definitivamente, e fare nuovi inenarrabili sforzi nel tentativo di trovarne un’altra. La comica sagoma del giocattolo al centro dello schermo non é simbolo di virilità, ma piuttosto di impotenza. Mai, per l’intera durata del gioco, il player ha la sensazione di poter davvero tenere testa ai mostri invisibili capaci di uccidere in un battito di ciglia. Il senso di sottomissione e palese inferiorità é costante.
  
Enemy Zero sbeffeggia anche altre convenzioni. La struttura labirintica delle mappe di Doom, "irrealistica" di fatto anche se il player-medio non se ne accorge, drogato com'è dall'adrenalina e dalla frenesia delle sanguinose sparatorie, qui si fa palesemente insensata. Le ultime due sezioni dell'astronave Aki sono costituite esclusivamente da corridoi ramificatissimi in cui ogni porta e ogni ascensore conducono solo all'ennesimo assurdo labirinto. Nessuna stanza, nemmeno la parvenza di un locale, solo condotti fine a se stessi e alla stimolazione di ansia infinita. Pure il tradizionale mutismo dei protagonisti di FPS canonici si risolve in barzelletta, dato che Laura in teoria è muta (non pronuncia mai una sola parola di senso compiuto, salvo quando fa il "riassunto della puntata precedente" nella schermata di caricamento, avulsa dalla narrazione) e in pratica non lo è affatto visto che emette di continuo gridolini, singulti, sbuffi, singhiozzi... Va però precisato che questa caratteristica era già stata introdotta in D e quindi non è più una novità.
   Il gioco non manda a gambe all’aria solo le convenzioni dell’iconografia FPS. Anche le ovvietà della trama sono soltanto un mezzo perché l’iconoclastia dell’autore possa scatenarsi. Prendere troppo sul serio il plot, la storia di Laura e del suo amore tragico, significa cascare grossolanamente nella provocazione di Eno, che ha concepito l’opera anche come sfida a certi luoghi comuni dell’horror di largo consumo e alle loro tendenze castranti. I riferimenti ad
Alien sono uno sberleffo, come é una sonora pernacchia la “scena madre” dell’incontro fatale tra Laura e il fidanzato David, talmente iperglicemica (per il cambio brusco di atmosfera, rimarcato dalla colonna sonora strappalacrime di Nyman) che anche il player più sprovveduto non può fare a meno di pensare a una burla.
 
L’intera costruzione apparentemente canonica dell’opera fantahorror si sgretola dunque sotto i colpi furibondi di Eno. Anche gli elementi exploitativi sono molto di più che una banale e commerciale strizzata d’occhio al pubblico adulto. Enemy Zero si apre con una sequenza insolitamente audace per i videogiochi dell’epoca (e che creò a Eno non pochi problemi con la puritana Sony, al punto da spingerlo a riprogrammare il gioco per Sega Saturn): Laura si risveglia ed esce dalla capsula criogenica completamente nuda, con tanto di luci flou che accarezzano il suo corpo dalle movenxe sinuose e languide. L’assenza di certi dettagli contribuisce solo a rendere la scena ancora più erotica (a quanto pare, anche nel lontanissimo futuro va di moda la mohicana!). Persino il booklet non manca di riportare fotogrammi della suddetta sequenza. Sembra una concessione terra-terra agli istinti più bassi dei videogiocatori, ma il tutto assume un significato completamente diverso quando, nel prosieguo della storia, il player scopre verità insospettabili su Laura (che qui non riportiamo, per lasciare ai player interessati il piacere della scoperta). Di conseguenza la scena teoricamente "erotica" si tramuta nell'ennesimo sberleffo. Sembra quasi di sentire Eno che sghignazza perché il player si é lasciato eccitare da qualcosa di palesemente finto... In realtà i giocatori più avveduti avrebbero dovuto, fin dall’inizio, evitare di cascare nella trappola dato che Laura é “finta” per definizione: non é una vera attrice, non é una persona in carne e ossa, é solo un avatar, un segno sullo schermo, un pugno di pixel privi di anima e sostanza. L’illusione é sempre stata palese, ma il player non aveva saputo (o voluto) rendersene conto, beandosi di immagini false finché Eno non gli ha scaraventato la realtà in faccia.
   E’ curioso come
Enemy Zero anticipi le riflessioni di certa arte concettuale moderna. Nel 2000 l’artista australiana Linda Erceg ha creato una videoinstallazione di nome Skin Pack in cui quattro personaggi femminili, versioni nudiste di avatar del videogioco Quake II, si dedicano a esibizioni voyeur con sottofondo audio campionato da film pornografici. Scopo della Erceg é mettere in discussione il ruolo dello spettatore nel mondo del sesso esibito su schermo (cfr. Valentina Tanni, "Fraggin' The Art World" - Videogiochi modificati e arte contemporanea). Ebbene, Enemy Zero precede di ben quattro anni l’analisi semiotica sul rapporto tra corpi reali e virtuali, sugli stereotipi che regolano la costruzione di modelli umani tridimensionali e sull’intera capacità rappresentativa della grafica 3D. Non male per quello che in genere viene considerato solamente" uno shooter bizzarro”...
Come già era avvenuto col predecessore D, Eno rischia l’ostracismo per i suoi concetti furiosamente anticonvenzionali e iconoclasti. Il fatto che le sue idee si presentino clownescamente camuffate sotto le sembianze di stereotipi serve solo a farle risuonare con maggiore forza e a disturbare il quieto vivere di chi si prostra alla standardizzazione del mercato. Enemy Zero é veramente il degno seguito di D, quasi un prequel visto che il predecessore era un capitolo 1 in assoluto (anche per il fatto che il titolo era composto da una sola lettera), mentre ora é il numero 0 a campeggiare ossessivamente. Può sembrare un’altra burla, visto che i due titoli non hanno in comune nulla, tranne l’attrice “digitale”, ma Eno stavolta non ha preso in giro nessuno. O meglio, si tratta di una burla su basi profondamente teoriche: ciò che crea la continuity secondo Eno é il progetto alle spalle, l’impostazione dogmatica. Già D era tutto incentrato sul concetto che “la realtà non é quello che sembra” ed Enemy Zero non fa che riprendere il tema per urlarlo con più forza. Una forza pari a quella dei terribili mostri che infestano l’astronave Aki, esseri virtualmente inesistenti perché senza identità (sono chiamati col generico nome collettivo the enemy, “il nemico”) né aspetto (sono invisibili). Eppure sono lì. Non si vedono direttamente ma si percepiscono, basta scegliere di percepirli, scegliere di guardare sotto il “velo di Maya” di schopenhaueriana memoria. E’ un po’ un peccato che in prossimità del finale di Enemy Zero Eno, forse spaventato dalla portata eversiva della sua creazione, scelga di incanalare l’opera in percorsi più banali. Così prima incontriamo i cuccioli di “nemico”, larve striscianti ben visibili, e poi la madre di tutti i “nemici”. Costei è un mostro immondo che pare partorito dalla stessa mente che generò la regina di Aliens, ma si tratta di una mostruosità per forza di cose deludente giacché il solo fatto di dare forma concreta a ciò che dovrebbe restare incerto, sfuggente e inafferrabile significa imprigionarlo in una sembianza e quindi sminuirlo e svilirlo. Il vero orrore resta il “nemico” della prima parte del gioco, il più orrendo kaiju mai creato: un’entità inconoscibile di cui si percepiscono solo brandelli informi quando la pistola di Laura riesce a colpirlo e si allarga uno spruzzo di viscere sullo schermo oppure quando é lui a colpire Laura facendo balenare un generico tentacolo che rimanda a 'tutto' e quindi al 'nulla'.
   Se quanto è stato scritto finora rischia di dare l'impressione di un'opera troppo cervellotica per suscitare tensione, conviene cambiare idea. Al di là della complessità semantica, Eno non perde mai di vista l'obiettivo principale del gioco, ovvero
terrorizzare. Ancora oggi Enemy Zero è uno dei survival horror più angoscianti e spaventosi di sempre. Poche cose predispongono al cardiopalma come vagare per corridoi opprimenti, pullulanti di mostri impossibili da vedere, armati solo con una pistola ad acqua! Certo, si tratta di una tattica a base di "salti dalla sedia" piuttosto facilina, ma ogni gioco horror dello stesso periodo utilizza formule più o meno simili. Sconsigliato a chi ha le coronarie fragili.
   Il capitolo successivo della Trilogia di Laura (al solito, senza legami di trama o gameplay) è
D2 .

  Versioni:

 


     Il gioco nasce per Saturn. Insieme con la prima edizione giapponese ne fu realizzata una a tiratura limitatissima dove l'opera era accompagnata da una replica della pistola impugnata da Laura.

   Il buon successo di vendite nella terra del Sol Levante portò alla diffusione di altri gadget, tipo la guida strategica e il cd con la
score di Michael Nyman (mai uscito in occidente e oggigiorno reperibile su eBay a prezzi da latrocinio).

   Per Usa ed Europa è stato realizzato nel '98 un porting su pc fedele alla versione originale.

 

  • Sega Saturn (1997)
  •  

  • Windows PC (1998)

  •  

    Marco "Night Walker" Montericcio