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Siamo alla fine. 
    
	
Rule of Rose 
	
può legittimamente essere considerato l’ultimo esponente dei survival horror “vecchia formula”, 
quelli nati nel 1996 con 
	
 Resident Evil 
	
	e caratterizzati da ritmi lenti e cadenzati, telecamere (semi)fisse, atmosfere plumbee e 
	prevalenza
 della componente esplorativa sui combattimenti.     ‘Ultimo’ non in senso letterale, giacché a posteriori ci sarà ancora spazio per i sequel 
 di franchise storiche (Obscure 2, 
 
	
Silent Hill Origins, Siren Blood Curse), 
tuttavia la produzione di titoli residenteviliani che aveva caratterizzato il ciclo vitale delle console di 5° e 6° generazione si conclude 
di fatto qui. Inoltre per il plot e il gameplay fortemente 
	
 rétro, nonché per la sensibilità crepuscolare, 
	
 Rule of Rose 
	
si presta meglio di altri titoli a simboleggiare la conclusione di un decennio irripetibile di cui
 costituisce in pratica l’elegiaco epitaffio. 
  
L’opera in sé, invero, non ha molte qualità (è troppo derivativa e dalla giocabilità goffa), ma l’atmosfera mélo intensamente nostalgica e al 
contempo torbida - a tratti pare di vivere uno 
	
 shojo manga malato - mista a scelte 
visuali da film horror d’epoca possiede forte personalità e lascia il segno.  
  
Un 
	
 cult “costruito” ma di sicuro fascino. 
Peccato solo che in Italia 
	
 Rule of Rose sia ricordato più che 
altro per la sterile polemica dei 
	
 media 
	
 ignoranti, scandalizzati da un banale filmato (peraltro non interattivo e neppure decisivo 
nell’economia del plot) sulla ‘bambina sepolta viva’. 
	
  
	 
	    Trama 
		
		
		
    
Inghilterra, 1930. A bordo di un autobus, la diciassettenne Jennifer sonnecchia e sogna finché non viene 
avvicinata da un bambino sconosciuto che le dona un libro di fiabe e subito dopo si allontana. 
Scesa a sua volta dal bus, Jennifer segue il 
bambino fino a un orfanotrofio abbandonato. Qui scorge altri fanciulli che sembrano prendersi gioco di lei. 
Dopo un’allucinazione che le fa 
perdere i sensi, la ragazza si ritrova inchiodata in una cassa e successivamente a bordo di un bizzarro dirigibile. 
  
Nel dirigibile Jennifer trova bambini organizzati in una specie di società segreta chiamata "gli Aristocratici della Matita Rossa". In questa 
società esiste una precisa gerarchia, il capo è un’invisibile Principessa cui fanno coro tre altezzose bambine dall’indole più o meno sadica, 
Diana, Meg ed Eleanor (la Duchessa, la Contessa e la Baronessa). Jennifer scopre di occupare il gradino più basso, quello di Mendicante 
(‘beggar’)! Tutti i membri della società devono periodicamente offrire doni specifici alla Principessa se non vogliono essere puniti con 
severità. 
  
Impossibilitata a fuggire e a ribellarsi, la ragazza non può far altro che adattarsi alle regole e patire le angherie che le bambine si 
divertono a infliggerle per il solo gusto sadico di vederla soffrire. Inoltre alcune zone del dirigibile pullulano di mostriciattoli letali 
chiamati Imp. Alleviano le pene di Jennifer solo una bambina malaticcia di nome Wendy e il cane Brown, che la segue fedelmente e l’aiuta 
fiutando oggetti utili.  
  
Ma chi o cosa ha intrappolato Jennifer in quest’incubo surreale? E come fare per liberarsene? 
		
  
		
   Grafica e gameplay  
		
		
  
 
	
	
 Paragonato da qualcuno a 
 Clock Tower, il gameplay di
 Rule of Rose in realtà mangiucchia da un po’ tutte le franchise di un certo peso. 
Il richiamo alla Torre dell’Orologio è probabilmente dovuto al fatto che la protagonista è una fanciulla virginale e che gli Imp (i nemici
 standard) vanno preferibilmente evitati anziché combattuti, visto che si presentano in schiere spesso inesauribili. 
	
	
Però il gioco non offre 
 nascondigli né esistono avversari effettivamente invincibili, come invece avveniva nel classico
 Clock Tower. In effetti il modello principale sembra piuttosto 
 Silent Hill 4, con il suo gameplay fatto di fughe a zig-zag e l’uso pressoché 
esclusivo di armi bianche. Il cane come partner pare invece prelevato di peso da
 Haunting Ground 
(anche se là combatteva, mentre qui serve come fiutatore di tracce).   C’è un pizzico di
 Resident Evil 
nei bidoni della spazzatura che funzionano come le magiche casse con capienza infinita, una dose di silenthill-ismi negli 
echi onirici e psicanalitici del plot, una manciata di
 Clock Tower 3 
(quello sì) e di 
 Project Zero
nelle figure delle fanciulle acerbe e indifese solo in apparenza. Per non parlare dell’atmosfera da 
 shojo-manga
	
adulto, con abbondanza di risvolti torbidi e metafore sessuali. 
  
La giocabilità purtroppo è ricca di magagne. Il difetto maggiore consiste nel movimento analogico male abbinato a un pessimo uso della 
telecamera. Non di rado le inquadrature cambiano angolazione in maniera talmente drastica che il player si ritrova a correre nella direzione 
opposta a quella desiderata, col risultato di finire tra le braccia dei nemici che invece si sforzava di seminare!  
  
Le battaglie sono quasi tutti all’arma bianca, però Jennifer vale poco come combattente anche quando il player è un esperto.  
 
	
	
E’ possibile 
che la cosa sia voluta, dato che il gioco spinge a empatizzare con una ragazzina timida e goffa, ma ciò non toglie che le boss-battle si 
rivelino spesso frustranti oltre la sopportabilità umana. Uno dei tocchi di originalità è costituito dal cane Brown, il cui fiuto serve a 
reperire indizi, armi, item curativi e persino dischi e pellicole (per rivedere i filmati in CG e risentire la colonna sonora). Peccato che 
il lavoro di ricerca alla lunga si riveli ripetitivo e tedioso. 
  
La grafica di 
 Rule of Rose
ricorda un film d’epoca e abbonda di fascino. Le soluzioni cromatiche virano al giallo-livido e al verde-acidulo, come immagini impresse 
su vecchia celluloide. L’illusione è rafforzata dalla fotografia volutamente sgranata e dalle mute didascalie in terza persona. Gli amanti 
del rétro hanno davvero pane e companatico in abbondanza per i loro denti, e il registro 
 old movie con tanto di narratore esterno conferisce una punta di ironico distacco ad eventi che altrimenti 
risulterebbero troppo melodrammatici. 
  
Merita una lode speciale la colonna sonora di Yutaka Minobe (Skies of Arcadia, Panzer Dragoon Orta), che
 per la circostanza ha fatto uso quasi esclusivo di strumenti a corda, senza traccia di elettronica. A parte la canzone di testa, un blues 
 classico in stile Billie Holiday, le sonorità strumentali da ‘musica da camera’ lievemente dissonante fanno pensare a un insolito mélange
 tra i quartetti di Bartok e i brani di Ravel e Halsey Stevens.
   
  
 Analisi
	
	
  
A 
	
	 
 Rule of Rose è toccata la sorte tipica di molti titoli “di culto”, quella di spaccare in due la platea. La frattura non riguarda, 
ovviamente, 
 gamers 
e detrattori disinformati. Questi ultimi sono talmente grotteschi nel crocifiggere con zelo opere di cui hanno solo 
una vaghissima conoscenza da trasformarsi inconsapevolmente nella parodia di se stessi. In pratica si squalificano da soli, per cui non vale 
la pena spenderci altre parole. 
		
		
  
  
La divisione tocca piuttosto fans accaniti e giocatori critici e disincantati. I primi pongono l’opera su un piedistallo e sostengono con 
virulenza che gli ineludibili difetti di gameplay sono tutto sommato trascurabili rispetto alla bellezza della ‘storia’. I secondi sottolineano
 con fregacci rossi ogni magagna tecnica e trovano che la frustrazione generata dalla pessima giocabilità finisca col far perdere fascino e 
 interesse anche al 
 plot. Sarebbe facile liquidare la questione come semplice problema di gusti, ma -a parte il fatto che il Signor
  Gusto non è davvero il più affidabile dei critici- ciò non spiegherebbe come mai altri giochi horror, più complicati in termini di gameplay, 
  non spacchino il pubblico in maniera altrettanto netta. Per una maggiore comprensione diventa dunque necessario analizzare l’opera nei 
  dettagli, risalendo per quanto possibile alle fonti e ai modelli d’ispirazione. 
  
Trama e atmosfere di 
 Rule of Rose sembrano rifarsi in particolare alla narrativa popolare ottocentesca anglosassone, soprattutto 
quella strettamente vittoriana ma con un occhio di riguardo anche per l’equivalente d’oltreoceano. Il primo nome a venire in mente è quello, 
fin troppo ovvio, di Lewis Carroll, l’autore delle avventure di 
 Alice nel Paese delle Meraviglie 
e 
 Attraverso lo Specchio, ma 
si tratta di un richiamo abbastanza fuorviante dato che i testi di Carroll sono soprattutto, come (non) è noto, saggi sul linguaggio. 
Decisamente più consistenti appaiono invece le ispirazioni provenienti dai 
 Penny Dreadful, i racconti e romanzetti di estrazione 
popolare pubblicati nell’Inghilterra dell’800 su riviste leggi-e-getta che costavano, appunto, soltanto un penny. Come i loro corrispettivi 
americani, i  
Dime Novel (dal prezzo di dieci centesimi), i 
 Penny Dreadful narravano storie che oggi definiremmo 
 pulp, 
fatte di sesso, violenza, sentimentalismo e atmosfere goticheggianti a buonissimo mercato, grezzume narrativo senza altro scopo che 
l’intrattenimento del pubblico di bassa estrazione. I 
 Penny Dreadful 
risultano interessanti ai nostri occhi moderni soprattutto 
come testimonianza del gusto popolare di una volta e per l’affascinante riproduzione degli stati d'animo tra lo stoicismo e il masochismo 
che pervadevano un’epoca frastornata dai continui fermenti e dal brusco e doloroso passaggio all’Età Industriale. 
		
		
  
  
L’ambientazione inglese di 
 Rule of Rose deve sicuramente molto agli scenari dei 
 Penny Dreadful, 
basti pensare alla rigidissima 
gerarchia sociale della società di bambini e al dirigibile-fantasma pieno di vecchi macchinari sferraglianti, il tutto appare però filtrato 
attraverso un’estetica da 
 shojo-manga, i fumetti giapponesi per ragazze trasudanti sentimentalismo. Notoriamente gli
 shojo-manga,
 anche quando affrontano argomenti forti come omicidi, violenza e atmosfere gotico-horror, conferiscono alla materia un’eleganza visuale che
  neutralizza gli eccessi sanguinolenti e fa prevalere i toni 
 mélo. Pure
 Rule of Rose evita di sguazzare troppo nel torbido e
   preferisce ostentare raffinate immagini da vecchio film d’epoca dotate di indubbio 
 flavour visivo. 
  
Altre possibili influenze si possono individuare in artisti di inizio 900 come Dorothea Tanning e Edward Gorey, autori di opere per un pubblico 
infantile intrise di humour nerissimo tipicamente anglosassone. Si pensi, per esempio, al libro di Gorey
 The Gashlycrumb Tinies, dove si 
insegna l’alfabeto ai piccoli lettori illustrando ventisei modi diversi di uccidere bambini: alla lettera A Amy viene buttata giù per le scale, 
alla lettera B Basil viene mangiato da orsi, e così via. 
  
Allargando lo sguardo analitico, si finisce inevitabilmente col notare come i modelli narrativi di 
 Rule of Rose 
abbiano parecchio in 
comune con quelli sfruttati da Anne Rice per dare vita alla saga romanzesca 
 The Vampire Chronicles. La Rice, è cosa nota, per narrare 
le avventure del suo personaggio, il vampiro Lestat, ha pescato a piene mani dai
 roman feuilleton 
gotico-romantici ottocenteschi, i figli 
bastardi del
 Vampire di John Polidori (1819) cui anche Bram Stoker deve molto. Purtroppo oltre che dai modelli ispiratori  Rule of 
Rose 
e i romanzi della Rice sono accomunati dal medesimo grave difetto: la cronica mancanza di originalità delle trame e, a ben vedere, di 
tutta “l’operazione”.
		
		
 
 Se si esclude il furbesco aggiornamento ai giorni nostri, ingredienti e ricetta sono fin troppo vecchio stile, collaudati 
ma polverosi. I romanzi della Rice, grattati via tutti gli orpelli gotico-chic, i risvolti decadenti e il sentimentalismo esasperato, non 
aggiungono assolutamente nulla alla tradizione romanzesca sui vampiri. Lo stesso vale per
 Rule of Rose la cui trama, spogliata dei 
fronzoli, si riduce a un esilissimo 
 whodunit 
(è nell’800, con Poe e 
 I delitti della Rue Morgue, che nasce il giallo investigativo 
moderno; i 
 Penny Dreadful 
sono stati i primi a far tesoro della lezione). L’autentica molla che spinge il player a giocare fino in fondo 
non è altro che il desiderio di scoprire l’identità del “colpevole”, il chi o il cosa ha precipitato Jennifer nella situazione allucinante in cui 
si dibatte. Ma proprio come avviene per la maggior parte dei gialli, l’opera non contiene altri motivi narrativi di interesse e, una volta 
conclusa, non spinge a essere ri-letta, ri-giocata, ri-fruita. 
  
E’ probabile che gli autori di 
 Rule of Rose siano stati i primi a rendersi conto dell’eccessiva esilità e scontatezza del
 plot, 
da cui la decisione di rimpolpare la pietanza con elementi di varia natura. Ciò spiega il “filtro estetico” da 
 shojo-manga, lo sguardo 
sociologico sulla gerarchia tra i bambini, la struttura in ‘capitoli’ introdotti da presentazioni fiabesche (con tanto di illustrazioni 
infantili e frasi tipicamente favolistiche), persino la scelta di approfondire la psicologia di certi personaggi mediante eventi costruiti 
come psicodrammi teatrali. Favola nera, psicodramma, analisi sociale... la carne al fuoco è molta. Forse troppa. Il problema è che nulla di 
tutto ciò contribuisce a dare forza al nucleo narrativo vero e proprio, quello ‘investigativo’. Si tratta di elementi dotati di fascino, 
addirittura commoventi, ma fini a se stessi. L’effetto è quello di un corso d’acqua che, anziché venire arricchito dagli affluenti, si disperde 
in cento rivoli.  
  
Ne risente più di tutti proprio la componente orrorifica, che invece dovrebbe avere un peso preponderante dato che il gioco aspira a essere 
(e tutto sommato è) un 
 survival horror. Le parti melodrammatiche e i risvolti decadenti e favolistici emergono a discapito della suspense 
e della tensione. Il che lascia finalmente capire come mai i combattimenti in
 Rule of Rose appaiano tanto fastidiosi: non perché difficili 
in sé, ma perché nel contesto risultano paradossalmente fuori posto! E’ assai frustrante dal punto di vista emotivo vedere interrompersi bruscamente 
toccanti sottotrame 
 mélo per ritrovarsi gettati in battaglie adrenaliniche.  
		
		
 E’ come se in un film si passasse di colpo, senza soluzione di 
continuità, da una sequenza in stile Cukor o Sirk o Fassbinder alla sfrenata 
 
 action degli horror moderni! Se almeno le battaglie fossero 
facili il player potrebbe anche chiudere un occhio, ma la loro intrinseca difficoltà non fa che aggiungere frustrazione alla frustrazione. Gli autori 
di  Rule of Rose 
non sono purtroppo riusciti a fondere l’anima sentimentale con quella thriller/horror, anche se dal punto di vista stilistico
 e visuale l’opera si mantiene saldamente unitaria. 
  
Pure il gameplay contribuisce al mancato amalgama. Gli elementi ludici più caratterizzanti non alimentano mai la paura. E’ sicuramente un’idea 
originale andare alla ricerca di armi, munizioni e item curativi sfruttando il fiuto del cane Brown, ma seguire un cane che annusa non è certo 
il massimo della suspense! In più l’azione risulta talmente ripetitiva che anche il player più volenteroso alla lunga è tentato di lasciar 
perdere. A suo danno, perché senza una notevole scorta di medicine le battaglie risultano ancora più difficili e frustranti. E’ un circolo 
vizioso dove il serpente non fa che mordersi la coda... 
  
L’opera trova un (parziale) riscatto nelle suggestioni della componente melodrammatica a cui l’estetica 
 shojo 
aggiunge un simbolismo 
forse un po’ elementare, ma piuttosto efficace. Alcuni personaggi risultano caratterizzati in maniera particolarmente intrigante. E’ il caso 
di Diana, presentata come un sadico “vampiro degli affetti” che sfrutta per egoismo i sentimenti delle compagne (vedasi la sequenza in cui, 
simbolicamente, succhia il dito sanguinante di un’amica) e che ostenta il proprio fascino usandolo come schermo per celare debolezze e 
sofferenze. Non a caso il ‘mostro-simbolo’ cui è associata è una sirena seminuda che vomita marciume corrosivo. Altri personaggi sono più di 
maniera, ma di fatto tutti risultano interessanti. 
   
Rule of Rose si giova anche dei toni crepuscolari da ‘fine di un’epoca’, intesa anche come epoca videoludica fatta di survival 
vecchio stile. Non è dato sapere con quanta consapevolezza gli autori abbiano creato questo videogioco così nostalgico ed elegiaco, resta il 
fatto che nonostante si tratti di un titolo massicciamente derivativo, capace di rubacchiare senza ritegno luddismi e idee altrui, l’operazione 
non disturba più di tanto. In fondo ogni elemento di gameplay ‘già visto’ contribuisce ad alimentare la nostalgia per un genere di videogiochi 
oggi defunto, ma che abbiamo amato e mai dimenticheremo.  
  
Altri eroi ed eroine, altri orrori, altre forme di interattività prenderanno il posto di titoli come 
 Resident Evil, Silent Hill 
e 
 
Project Zero. Per 
 Rule of Rose 
e la categoria di cui canta l’elogio funebre resta una fiamma votiva inestinguibile nel teatro della 
nostra memoria. Forse. 
	
	   
	
	
	
	
	  Versioni
	
		
	 
	
	
		
		
	
    
  
 
     Trattandosi di una produzione Sony, il gioco è solo per 
PlayStation 2: Curiosamente lo 
 zaibatsu giapponese, forse spaventato dalle numerose polemiche, ha rinunciato alla distribuzione all'estero, che è stata così compiuta da Atlus (in America) e 505 GameStreet (in Europa).
   Il gioco è tuttora bandito nel Regno Unito. 
 
  
A dispetto delle voci incontrollate, posso assicurare che non esistono censure nelle versioni occidentali.
  
    Sony PlayStation 2 (2006)
	
	 
	
	  
	
	   
		
		
  Marco Night Walker" Montericcio       
        
		
  
		
		
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Screenshot
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-  800 x 450  -
 
  
 
	
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	Wallpaper  
	*** 
	- 1200 x 900 - 
 
 
	
	
	
	
	
	
	
	
	
	
	
	
	
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